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Sue Prideaux

Io sono dinamite

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Quando l’8 gennaio 1889 Franz Overbeck entra nella stanza di Friedrich Nietzsche, lo trova rannicchiato sul divano, impegnato in apparenza a correggere il suo Nietzsche contra Wagner. In realtà non è così: il filosofo ripete i gesti necessari per la lettura — la carta a una certa distanza dal naso, gli occhi che scorrono da sinistra a destra — ma non sembra più in grado di decodificare le sue stesse parole. Overbeck è un uomo silenzioso, solido, poco avvezzo alle manifestazioni emotive, ma quando vede in quello stato mentale il suo amico e collega dei tempi universitari a Basilea si sente mancare le gambe. Solo un anno prima in Ecce Homo, destinato a uscire postumo, Nietzsche si descriveva in tutt’altro tono: «Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme — una crisi quale non si era mai vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza. Io non sono un uomo, sono dinamite». Sembrerebbe solo il passaggio oltre la linea d’ombra della follia, ma tutta la vita di Nietzsche si gioca su questa doppiezza: da un lato il filosofo iconoclasta, l’ordigno umano pronto a far saltare tutti i dogmi morali, religiosi e istituzionali di fine secolo; dall’altro l’anima vacillante attratta magneticamente dagli abissi dell’irrazionale in cui, per una tragica ironia, finirà per cadere. Ed è su questa antinomia che Sue Prideaux costruisce la biografia del primo maestro del sospetto, l’innesco intellettuale che contribuì a far esplodere in tutta la sua energia il Novecento. Io sono dinamite è il ritratto di un uomo che presentiva il proprio tramonto precoce ma proprio per questo era scosso da un intenso impulso vitale. E infatti i disturbi alla vista e le emicranie lancinanti, in parte all’origine del suo stile ellittico e oracolare, non gli impedirono di esordire come enfant prodige della filologia classica e conquistare presto il campo della filosofia. Allo stesso modo, il suo carattere ispido non gli proibì di costruire i legami che ne hanno intessuto l’esistenza: dal rapporto edipico e burrascoso con Richard Wagner al ménage à trois intellettuale col filosofo Paul Rée e la fascinosa Lou Salomé, una delle più brillanti future allieve di Freud, fino al vincolo doloroso di affetti con la sorella Elisabeth, custode e insieme “traditrice” del suo lascito letterario, sulle soglie del grande malinteso nazista che ha determinato la fama — e l’infamia — postuma del geniale ideatore del superuomo.
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